Roberto Di Ceglie

Quale atteggiamento deve assumere il cristiano in filosofia? Se la condizione di cristiano è tale da influire sulle modalità della riflessione filosofica, che cosa ne consegue per il rapporto tra la fede e la ricerca della verità? I due autori, entrambi cristiani, hanno approcci diversi al riguardo, sotto il profilo dell’ispirazione intellettuale, degli approfondimenti tematici e dello stile espositivo, ma è comune a entrambi il desiderio di riflettere sull’amore e l’obbedienza come fonti della filosofia del credente. Questo piccolo libro realizza un’eco italiana del dibattito intorno a «una filosofia conforme a Cristo», molto vivo soprattutto nei paesi anglosassoni, qui articolato con un costante riferimento al pensiero di san Tommaso d’Aquino, così centrale nella tradizione religiosa e culturale del nostro Paese.

In this article, I focus on what emerges from Thomas Aquinas’s religious epistemology once taken into consideration in the light of the contemporary debates on Christian philosophy. I argue that Aquinas profitably explores what is specific to Christian faith – its being under the command of the will moved by God’s grace. According to Aquinas, it seems that it is precisely that which is specific to faith and distinguishes it from human reason that puts believers in an ideal condition to develop intellectual activities.

Can epistemology be shaped by the Christian faith? Is there anything specific to this faith that can give rise to an equally specific epistemology without compromising the autonomy that the latter requires from faith? In the footsteps of Aquinas's religious epistemology, I first focus on the fact that Christian faith seems to characterize intellectual activity in a way that appears to be irreconcilable with epistemological perspectives that are not shaped by faith. Second, I argue that it is possible to do justice to the irreconcilability in question by making reference to what radically distinguishes the Christian faith from the epistemological reflection. Finally, I focus on two ways in which the specific nature of Christian faith can shape and promote rationality, and give rise to a Christian epistemology.

Sacrifice as a practice aimed at honoring deities by offering them something as a sign of propitiation or worship is usually studied from the viewpoint of numerous disciplines and religious cultures, from which equally numerous interpretations follow. However, the view of sacrifice as able to shape life in its entirety, which means that every act taken by believers may be seen in sacrificial terms, does not seem to be sufficiently considered. This is a view that I believe emerges from various reflections on sacrifice, especially the ones offered by thinkers of the past such as Augustine and Aquinas. In this essay, I first focus on these reflections and more specifically on Augustine’s and Aquinas’s view that religious believers should order everything to God. I then argue—in the footsteps of Aquinas—that this view applies to important acts taken by believers. These acts are prayer, faith, and intellectual activity.

In this essay, I focus on the theological origins of the argument for the existence of God that Anselm develops in chapters 2-4 of the Proslogion. By ‘theological origins’ I mean that the unum argumentum was put forward in support of the truth (or at least of the internal consistency) of the Christian faith, whether the argument was intended to convince unbelievers or not. My aim is to demonstrate that, contrary to what is often believed, it is precisely the theological origins here under consideration that created the circumstances out of which Anselm developed a rigorous and original philosophical inquiry.

In un saggio intitolato La fede e il dubbio. L’inesistenza e la violenza della fede, Emanuele Severino giudica incoerente la dottrina cattolica – come pure la prospettiva di Tommaso d’Aquino cui essa risale – stando alla quale la fede risulta certa nonostante le verità che in essa si credono manchino di evidenza. La fede sarebbe non solo inesistente (una fede certa, come quella proclamata dai Vangeli e sostenuta da Tommaso, semplicemente non può esistere) ma anche violenta (l’incoerenza che la contraddistingue vìola la natura della conoscenza razionale). La tesi di Severino è stata già discussa e criticata da alcuni studiosi ad avviso dei quali la prospettiva che la genera manca di un’adeguata considerazione della natura della fede cristiana, giudicata da Severino unicamente in base al criterio dell’evidenza razionale. In questo saggio si intende approfondire questa posizione critica nei confronti della tesi severiniana. Si puntualizzerà che al centro della dottrina tommasiana della fede si situa l’amore per Dio inteso come fine e senso della fede. Secondo Tommaso infatti non l’evidenza razionale ma la carità – donata da Dio stesso – porta i cristiani ad affidarsi a lui e a credere con fermezza quanto egli ha rivelato. Si preciserà quindi che, nel pensiero dell’Angelico, la realtà di un legame così decisivo non sminuisce la rigorosità dell’esercizio razionale. Al contrario, quanto maggiore è la fiducia riposta in Dio creatore tanto più grande risulta l’apprezzamento delle facoltà razionali da lui create. Per questo, Tommaso spinge la ragione a un’indagine senza limiti, sicuro del fatto che essa, sebbene non possa evidenziare la verità della fede, può tuttavia dimostrarne la coerenza interna e combatterne le obiezioni. Prima di procedere con l’esposizione della critica di Severino alla fede cristiana, una precisazione di carattere metodologico risulta doverosa. Alcuni studiosi hanno rilevato che tale critica dipende essenzialmente dalla prospettiva ontologica severiniana, incentrata, come è noto, sull’assunto parmenideo che l’essere è ed è impossibile che non sia. Tutta la tradizione occidentale, dall’evoluzione tecnologica alle convinzioni morali e alla fede cristiana, sarebbe stata fatalmente minata dal proprio radicamento in quella “follia” che per Severino è rappresentata per l’appunto dall’accettazione della realtà del divenire. Secondo la sintesi offerta ad esempio da Giuseppe Pirola, «pensando l’essere come niente, come ciò che può essere e non essere, anziché come ciò che è ed è impossibile che non sia, tutta la modernità cade nel nichilismo; non solo la tecnologia ma anche la morale e la stessa fede cristiana». Allo stesso modo, Leonardo Messinese sostiene che «l’affermazione rigorosa e concretamente determinata della verità dell’essere si è configurata in Severino comeun’affermazione che estende il suo raggio dal campo dell’ontologia a ogni altro ambito tradizionale della filosofia e, ancora più ampiamente, a ogni ambito della cultura e prassi dell’uomo». Ne consegue che «siamo in presenza di una critica della fede cristiana la quale contiene degli elementi di originalità rispetto alle tradizionali forme di critica della religione operate nel pensiero moderno e contemporaneo». Le considerazioni severiniane che qui si prenderanno in esame –considerazioni strettamente relative alla presunta inconsistenza razionale dell’atto di fede – sono tuttavia pienamente riconducibili al primato dell’evidenza così come esso si configura presso ogni forma di evidenzialismo moderno. Come verrà mostrato nel corso di queste pagine, al cuore della critica che Severino rivolge all’atto della fede cristiana vi è l’attenzione per una caratteristica propria dell’epistemologia della fede che anche altri pensatori, pur partendo da prospettive molto diverse da quella severiniana, ritengono sia il limite dell’esperienza dei cristiani: l’assenza di evidenza tipica delle verità rivelate e il fatto che conseguentemente è la volontà a spingere l’intelletto a dare loro l’assenso (da questo seguirebbe il dubbio e quindi la contraddizione con la pretesa di certezza che la fede cristiana porta con sé). In questa sede si procederà dunque a discutere la posizione di Severino a questo riguardo senza considerarne le assunzioni ontologiche e storico-filosofiche.

Alla provvidenza di Dio si fa spesso ricorso per proporre una soluzione al problema del male, quando questo venga usato a fini ateistici. Negli ultimi decenni, accanto al problema del male, si è imposto un altro problema finalizzato a negare l’esistenza di Dio, quello del nascondimento divino, soprattutto nella versione che ne ha offerto il filosofo canadese John Schellenberg (1959-). In questa sede, intendo trattare il rapporto tra nascondimento e provvidenza di Dio. Intendo innanzitutto mostrare che alla base dell’argomento del nascondimento, così come Schellenberg lo propone, vi è un’inadeguata lettura degli eventi storici. Di essi non vengono considerate le conseguenze, perlomeno le più significative, che possono darsi nel corso del processo storico. Intendo poi confermare questa mia lettura in due modi. In primo luogo, mostrando che la filosofia della storia, ossia una lettura razionale degli eventi storici, si è potuta dare solo quando tali eventi siano stati letti secondo un’ipotesi che ne considerasse, appunto, il successivo processo di sviluppo. In secondo luogo, mostrando che questa ipotesi, a differenza di quella che non considera tale processo, evita l’insorgenza di un problema morale

Lo storico della filosofia e filosofo francese Étienne Gilson (1884-1978) ha notoriamente offerto una lettura innovativa di importanti figure del pensiero medievale, da Tommaso d’Aquino a Duns Scoto e Bonaventura, includendo in questa lista anche Agostino di Ippona. L’originalità della lettura offerta da Gilson si esprime per lo meno in due modi. In primo luogo, Gilson ha argomentato a sostegno dell’effettiva caratura filosofica, e non semplicemente teologica, del pensiero di quei pensatori. Contro un pesante pregiudizio che all’epoca in cui egli iniziava le sue ricerche, e specialmente nella sua Francia, gravava nei confronti della cultura medioevale – di non aver espresso alcuna filosofia ma solo una teologia – egli acquisì «il merito di aver non solo iniziato genialmente la riscoperta della filosofia medievale, ma di aver decisamente contribuito a riportarne la storia ai livelli della scientificità e della dignità accademica». In secondo luogo, Gilson ha sostenuto che la filosofia in questione si caratterizza di uno «spirito cristiano» che, come aveva caratterizzato l’epoca medievale sotto ogni altro aspetto, ne aveva informato il pensiero filosofico, dando vita a una vera e propria «filosofia cristiana». Ma se questo significa che, per il filosofo francese, si dava un elemento di caratterizzazione unitaria del pensiero medievale, va anche rilevato che, per lo stesso autore, questo pensiero andava indagato nella sua notevole varietà. Con competenza e lettura fedele dei testi, Gilson valorizzò le differenze tra le filosofie dei vari autori presi in considerazione. In questo articolo, intendo mostrare che queste due caratteristiche dell’interpretazione gilsoniana del pensiero medievale si applicano entrambe all’interpretazione che il filosofo francese offrì del pensiero di Dante Alighieri. In primo luogo, Gilson ha riconosciuto anche a Dante, come al pensiero medievale tutto, una caratura specificamente filosofica. In secondo luogo, della filosofia del sommo poeta (che Gilson riteneva anch’essa ‘cristiana’) ha evidenziato la peculiarità, sganciandola dalle classificazioni che la volevano ridurre a qualcuna delle correnti filosofiche del Duecento. Il fine che mi propongo è quello di mostrare (nella prima sezione) in che cosa consista questa peculiarità, per poi procedere (nelle successive tre sezioni) a rilevare che essa conduce Gilson a una coerente interpretazione di Dante filosofo secondo tre direttrici: quella etica, quella politica e quella filosofico-storica.

In this book, Roberto Di Ceglie offers an historical, theological, and epistemological investigation exploring how commitments to God and/or the good generate the optimum condition to achieve knowledge. Di Ceglie criticizes the common belief that to attain knowledge, one must always be ready to replace one's convictions with beliefs that appear to be proven. He defends a more comprehensive view, historically exemplified by outstanding Christian thinkers, whereby believers are expected to commit themselves to God and to related beliefs no matter how convincing the evidence contradicting such beliefs appear to be. He also argues that both believers and unbelievers can commit themselves to God and the good, respectively, thereby creating a spiritual turn in epistemology that enables them to generate the best possible condition for conducting rational enquiries and discussion.

Two significant aspects of Thomas Reid's thought seem to be irreconcilable with one another. On the one hand, Reid constantly refers to the substantive benefits which human knowledge receives from the Christian revelation. On the other hand, he does not justify philosophical or scientific beliefs by way of appeal to God. In this essay, I argue that a closer inspection of both Reid's philosophical reflection and scientific investigations shows that the two aspects just mentioned are compatible with one another. In short, although an influence on rational investigation is somehow exerted by divine revelation, this does not limit the autonomy of reason, which is actually stimulated and promoted precisely because of a religiously rooted confidence in our rational faculties.

In a recent essay Duncan Pritchard argues that there is no fundamental epistemological distinction between religious belief and ordinary or non-religious belief. Both of them – so he maintains in the footsteps of Wittgenstein's On certainty – are ultimately grounded on a-rational commitments, namely, commitments unresponsive to rational criteria. I argue that, while this view can be justified theologically, it cannot be advanced philosophically as Pritchard assumes.I offer an account of Aquinas's reflection on faith and reason to show that the theologian – not the philosopher – is entitled to deal with a-rational commitments, because the truths of faith can be seen as simply intellectual – like the rational statements considered by the philosopher – but also as decisions made by way of divine grace. I also suggest that Pritchard's thesis may be re-proposed on a new basis, if Aquinas's theological stance were reinterpreted so as to point out unexpected connections between theology and philosophy.

Intellectual humility plays a crucial role among intellectual virtues. It has attracted considerable attention from virtue epistemologists, who have offered a fair number of treatments. In this essay, I argue that, regardless of the difference among these treatments, they are beset by two problems: they fall into a circular argument; they fall into a self-referential contradiction. I then argue that a recent proposal by D. Pritchard allows us to avoid, but not. However, by combining this proposal with another reflection advanced by the same author while he discusses the Wittgensteinian notion of hinge commitments, it is possible to avoid. The thesis that emerges is that only a partial application of intellectual humility solves. Finally, I reinforce this thesis by rejecting an alternative solution to.

This book offers a new reading of Aquinas' views on faith. The author argues that the theological nature of faith is crucial to Aquinas' thought, and that it gives rise to a peculiar and otherwise incomprehensible relationship with reason. The first part of the book examines various modern and contemporary accounts of the relationship between faith and reason in Aquinas' thought. The author shows that these accounts are unconvincing because they exhibit what he calls a Lockean view of faith and reason, which maintains that the relationship in question should only be treated by way of evidence. In other words, this view ignores the specific nature of the Christian faith and the equally specific way it needs to relate to reason. The second part offers a comprehensive account of Aquinas' view of faith. It focuses on the way the divine grace and charity shape the relationship between evidence and human will. The final part of the book ties these ideas together to show how Christian faith, with its specifically theological nature, is perfectly compatible with rational debates. It also argues that employing the specificity of faith may constitute the best way to promote autonomous and successful rational investigations. Aquinas on Faith, Reason, and Charity will be of interest to scholars and advanced students working on Aquinas, philosophy of religion, Christian theology, and medieval philosophy.

In a recent book devoted to the axiology of theism, Kirk Lougheed has argued that the ‘complete understanding’ argument should be numbered among the arguments for anti-theism. According to this argument, God’s existence is detrimental to us because, if a supernatural and never completely understandable God exists, then human beings are fated to never achieve complete understanding. In this article, I argue that the complete understanding argument for anti-theism fails for three reasons. First, complete understanding is simply impossible to achieve. Second, even if achieving complete understanding were possible, it would not be beneficial. Third, the only type of complete understanding that is possible to achieve and is beneficial to human beings is the understanding of that which is of primary importance to us, and not the understanding of everything, as Lougheed seems to assume. God can grant us complete understanding of that which is of primary importance to us. As a consequence, God’s existence ends up being beneficial and not detrimental to us.

In Advice to Christian philosophers Alvin Plantinga suggested that Christians who propose to be philosophers should not limit themselves to being philosophers who happen, incidentally, to be Christians. Instead, they should develop a Christian philosophy. From this, however, a problem followed, which is still seen as a reason to deny that a Christian philosophy is possible. It seems implausible that the outcome of the interaction between faith and philosophy is, really, philosophy and not merely theology. Plantinga did not deal with this problem. Unlike him, thinkers of various orientations, especially scholars of Thomas Aquinas, had discussed it during the French querelle in the 1930s. In this article, I argue that they did not solve this problem because they did not examine the relationship between faith and philosophy by considering what faith requires in order to relate to reason. Instead, this consideration was suggested by Plantinga’s Advice and, long before, it had been developed in detail by Thomas Aquinas. It is, therefore, time to propose Thomist Advice to Christian Philosophers.

In recent decades, Richard Swinburne has offered an influential view of the relationship between faith and reason. In doing so, he focused to a considerable extent on Aquinas’s view of faith. For Swinburne, Aquinas’ view of faith is that to have faith in God is simply to have a belief-that. In contrast, it is another view of faith, which Swinburne calls ‘Lutheran,’ that involves both theoretical beliefs-that and a trust in the Living God. In this article, I argue that Swinburne’s view is not faithful to Aquinas’s doctrine of faith. In the first section, I will explain Swinburne’s view of belief in detail and its application to Aquinas’s doctrine of faith. In the second section, I will bolster my argument by showing that Swinburne’s reading is inconsistent with Aquinas’ statements regarding three relationships, which are essential to Aquinas’s faith. I am referring to the relationships between faith and will, between faith and merit and between faith and doubt.

In this essay, I first show that, from the view that God is the ultimate cause of the human ability to perform ethically laudable acts, does not follow that no continuity between biological and intentional altruism is possible. In line with recent theological research concerning the non-human world, I argue that there is a partial continuity between these two forms of altruism. I also show that, from a naturalistic viewpoint, no continuity at all seems demonstrable between the two forms of altruism at stake. I therefore contribute to strengthen a more general conviction, according to which evolution in itself is more persuasive than its combination with naturalism.

Many believe that a peaceful, tolerant and respectful coexistence among religions is not compatible with the conviction that only one of them is true. I argue that this ‘incompatibility problem’ (IP) is grounded in a ‘naturalistic assumption’ (NA), that is, the assumption that every subject, including religion, should be treated without taking into account that a super‐natural being may exist and reveal to us an unexpected way to deal with our experience. I then argue that in matters of religion, NA is untenable and that its very opposite, which I call ‘super‐naturalistic assumption’ (SA), should be adopted. My thesis is that, once SA is adopted, IP can be dismissed and that it is plausible to maintain that a peaceful, tolerant and respectful coexistence among religions is compatible with the conviction that only one of them is true.

In this article, I focus on the circular relationship that, in his 1998 encyclical, Jean Paul II argued there is between faith and reason. I first note that this image of circularity needs some explaining, because it is not clear where exactly the circular process begins and ends. I then argue that an explanation can be found in Aquinas’s reflection on the gift of understanding. Aquinas referred to the virtue of faith as caused by God, which promotes human reason, and this in turn strengthens the certainty of faith.